Utopia acida: PROLOGO
Il futuro che non si è mai avverato
Padre nostro, Ti ringraziamo per la fiaccola dell’apprendimento che ha illuminato i nostri sentieri nel passato… da Stonehenge al Partenone, dal Rockefeller Center al Gregory Bateson Building, la permanenza artistica è stata aggiunta all’umanità.
— stralcio dalla preghiera recitata “al momento del completamento dell’edificio dedicato a Gregory Bateson” (Diario del Senato, Legislatura dello Stato della California, 4 maggio 1981)
Nel periodo più buio della Grande Depressione economica, un’opera geniale prese vita in un grattacielo di Manhattan in via di completamento. Eravamo verso la fine del marzo 1933. All’esterno dell’edificio, una fredda pioggia primaverile cadeva sui tanti disoccupati, il cui numero aveva raggiunto quasi un quarto della popolazione statunitense in età lavorativa. All’interno, Diego Rivera era impegnato a creare un capolavoro. Tutto ebbe inizio con delle semplici linee tracciate su una parete dell’atrio dell’edificio al numero 30 del Rockefeller Center. Linee che presto divennero figure umane. Figure che si riempirono di colori brillanti. Man mano divenne chiaro che l’affresco di Rivera, intitolato Man at the Crossroads, potenzialmente rivelava tutte le caratteristiche per poter essere ricordato per i successivi cento anni. Anzi, più che ricordato: era un’opera d’arte che pareva annunciare l’arrivo del secolo venturo.
La composizione s’incentrava su due ovali incrociati somiglianti ai fasci di luce emessi da un grosso proiettore, o forse ai segmenti convergenti di un cromosoma X. Rivera riempì uno degli ovali con un groviglio di cellule e nervi color cremisi. L’altro divenne una finestra sullo spazio profondo: un vortice di stelle luminose. Su entrambi campeggiava una torre composta da ingranaggi futuristici, richiamando alla memoria il film Metropolis di Fritz Lang. Tante le figure umane che s’affollavano attorno alla macchina. Da una parte, un gruppo di lavoratori guardava attraverso un’enorme lente quella che Rivera definiva “la scena di un night club per ricchi dissoluti”. In alto, file di soldati in marcia con indosso maschere antigas. In basso a sinistra, Charles Darwin sbirciava enigmatico accanto a un apparecchio per i raggi X.
In posizione prominente, al centro del murale spiccava la figura enorme di qualcuno che sembrava un tecnico di laboratorio. Era affiancato da due enormi lenti di vetro. Sembrava fosse costui, quest’ingegnere cosmico, a controllare l’intero meccanismo del dipinto. La nostra tecnologia ci avrebbe reso come degli dei, sembrava suggerire Rivera. E quando l’umanità si troverà al crocevia di un nuovo mondo, verranno amplificate sia le crudeltà dei secoli passati sia il potere in mano nostra.
L’osservatore più importante dell’opera in corso era l’uomo enormemente ricco e proprietario dell’edificio in cui Rivera stava lavorando: John D. Rockefeller Jr.. Inizialmente quest’ultimo si mostrò entusiasta dei progressi del murale. La situazione cambiò quando si rese conto che un ritratto idealizzato di Vladimir Lenin avrebbe dominato un lato della composizione. Immediate arrivarono le proteste dell’amministratore dell’edificio (che temeva gli inquilini si sarebbero presi un bello spavento) e subito dopo dei giornalisti. I lavori vennero bloccati. Poi, la notte del 10 febbraio 1934, un gruppo di uomini entrò nell’atrio dell’edificio. Il giorno prima era stato il più freddo mai registrato a New York City, provocando almeno sei vittime in appartamenti privi di riscaldamento. Togliendosi i cappotti invernali per rivelare tute da lavoro non dissimili da quella indossata dalla figura centrale con sembianze divine del murale, gli uomini staccarono l’intonaco con il dipinto di Rivera dalla parete.
Per tre anni, le pareti dell’edificio al numero 30 del Rockefeller Center rimasero bianche. E poi, nel 1937, man mano divennero la sede di un nuovo murale. Completamente sparite le preziose sfumature di Rivera: i verdi radioattivi, i blu cosmici, i pennacchi arcobaleno dell’uccello del paradiso appollaiato di fianco a Darwin. Al loro posto comparve una serie di cliché tipica degli anni ’30: travi d’acciaio spostate da gru meccaniche e ciminiere che sbuffavano verso il cielo, il tutto reso in una squallida tavolozza di beige e grigio. Il dipinto s’intitolava American Progress.
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Questo libro racconta la storia segreta della prima ondata della scienza psichedelica, un campo di ricerca radicale in cui si cercava di sfruttare il potere delle sostanze psichedeliche per esplorare la coscienza umana, per aprire la strada a terapie rivoluzionarie e persino per trasformare la società globale. È una storia fatta di ingegnosità e ambizione, di trionfi e tragedie e di un futuro rimasto comunque irraggiungibile. Come Man at the Crossroads, la scienza psichedelica sfidò le norme in vigore all’epoca, estendendone l’orizzonte con modalità al contempo seducenti e inquietanti. E al pari del murale di Rivera, anche l’eredità della scienza psichedelica venne poi ridipinta.
Non mancavano certo i motivi per questo oblio di massa: gli abusi dell’etica medica, certi patti col diavolo per il militarismo, la disillusione delle promesse utopistiche. Ma prima di rivelarsi un’utopia fallita, si trattò di un sogno bellissimo. Riportarlo alla luce può servirci da guida nel presente, mentre ci troviamo ad affrontare l’ennesimo bivio tra l’ambizione tecno-utopica e il disordine della realtà quotidiana.
Gli individui e gli eventi presentati nelle pagine che seguono hanno costituito il capitolo iniziale di un’improvvisazione di massa, attiva ancor’oggi, relativa alle reazioni chimiche pertinenti al cervello umano. Considerato nel suo insieme, il quadro chiarisce come l’epoca iniziale della sperimentazione globale con sostanze in grado di espandere la coscienza ebbe luogo ben prima di quanto si ritenga comunemente, dagli anni Venti ai Cinquanta, piuttosto che negli anni Sessanta e Settanta.
In altri termini: Timothy Leary e i Baby Boomers non hanno aperto le porte alla prima epoca psichedelica, bensì le hanno chiuse.
Più di chiunque altro, è stato il gruppo di ricercatori interdisciplinari raccoltosi intorno agli antropologi Margaret Mead e Gregory Bateson nel periodo della Seconda guerra mondiale a plasmare lo sviluppo della ricerca psichedelica dagli anni Trenta in poi. Un gruppo variegato comprendente antropologi, ricercatori, psicologi, neuroscienziati, e pionieri informatici. Attivo per circa due decenni a seguito dei convegni internazionali finanziati dalla Josiah Macy, Jr. Foundation, il “circolo Macy” condivideva l’impegno per la ricerca applicata e interdisciplinare. Un gruppo che si rivelò terreno fertile per la fioritura della scienza psichedelica negli anni Cinquanta, quando sostanze tipo psilocibina, peyote e LSD emersero non soltanto in quanto strumenti potenzialmente in grado di calmare l’ansia o di coadiuvare la psicoterapia, bensì anche in quanto “scorciatoie” per promuovere cambiamenti culturali trasformativi nonché l’espansione della coscienza collettiva.
Quest’epoca di ricerca utopica sulle droghe non avveniva soltanto nei laboratori scientifici. Fu un movimento di massa, che coinvolse migliaia di persone in modi estremamente positivi ed enormemente distruttivi: nel 1957 in televisione una casalinga di Los Angeles, sotto gli effetti dell’LSD, disse a uno scienziato maschio più anziano, guardandolo dritto negli occhi: «Mi dispiace per te». Un ragazzo di Harlem divenne una cavia inconsapevole nei test illeciti con sostanze psichedeliche condotti dalla CIA in una struttura governativa nel Kentucky. Il tentativo finanziato dalla NASA di insegnare ai delfini a parlare fallì quando lo scienziato-capo prese a iniettare a se stesso e ai delfini enormi dosi di LSD. In quegli anni, fra i vari consumatori di psichedelici vanno annoverati: dodici uomini e donne che si offrirono volontari per provare l’LSD a Baghdad, in Iraq; trenta studenti di medicina di Budapest che trascorsero l’estate prima della rivoluzione ungherese del 1956 iniettandosi a vicenda una sostanza psichedelica appena scoperta nota come DMT; l’icona di Hollywood Cary Grant e la scrittrice Anaïs Nin; e una giovane studentessa di opera lirica presso la Juilliard School e rifugiata dalla Germania nazista che trascorse parte del suo viaggio con l’LSD discutendo con Margaret Mead l’eventualità per cui le sostanze psichedeliche potessero sbloccare particolari abilità psichiche.
Nel loro insieme, queste vicende gettano una nuova luce – vibrante, surreale e talvolta inquietante – non soltanto rispetto alla storia della scienza psichedelica, bensì anche sull’intero Ventesimo secolo.
Uno scenario straordinario contraddistinto dalla partnership intellettuale e dalla tumultuosa relazione romantica che coinvolgeva Margaret Mead, la scienziata più famosa e più polarizzante della sua generazione, e il suo terzo marito, l’antropologo britannico Gregory Bateson. La loro influenza si estese in così tante direzioni che a volte è tutt’altro che facile tenerne traccia. «S’interessava veramente a tutto», ricorda uno dei suoi amici. «Era una mente radicalmente originale». Nella penombra in cui fiorivano lo spionaggio della Guerra Fredda e la paranoia dell’era atomica, Mead e Bateson coltivavano amicizie con tutti, da un’ex spia sovietica a un leader religioso su una piccola isola al largo della costa della Nuova Guinea, dallo scienziato al centro del programma di sperimentazione con le droghe della CIA al delfino protagonista della serie televisiva Flipper. Studiarono i culti apocalittici e la schizofrenia, gli ormoni sessuali e i viaggi nello spazio, la pace nel mondo e la mescalina.
Mead, Bateson e la loro cerchia sono importanti per la storia degli psichedelici soprattutto per una ragione: la visione condivisa della scienza in quanto strumento per espandere la coscienza umana. L’obiettivo principale di Mead nella vita, ebbe a dire lei stessa una volta, era quello di “mantenere il futuro al sicuro”. Secondo lei, per raggiungere quest’obiettivo bisognava ampliare la “consapevolezza” collettiva della specie umana in modo da poter “imparare consapevolmente a creare civiltà all’interno delle quali una percentuale crescente di esseri umani potesse rendersi conto delle potenzialità che si portavano dentro”. Gli anni Venti si erano imposti come un decennio di meraviglie scientifiche: nuove scoperte quali le macchine a raggi X avevano rivelato le realtà nascoste sotto la superficie; dei farmaci miracolosi come la penicillina curavano malattie mortali; le onde radio trasportavano le voci umane attraverso gli oceani; gli aeroplani volavano più in alto delle nuvole; i grattacieli si innalzavano sopra le città; e la meccanica quantistica sfidava ogni buon senso. In breve, la scienza aveva già trasformato il mondo. E sembrava destinata ad andare perfino oltre – promettendo trasformazioni non solo nelle tecnologie della vita quotidiana, bensì nell’esperienza stessa in quanto esseri umani. E neppure l’arrivo della Grande Depressione riuscì a smorzare le speranze utopistiche di Mead. Anzi, non fece altro che catalizzarle. Gli anni difficili del decennio dei Trenta la convinsero dell’urgenza di sviluppare un nuovo tipo di scienza capace di intervenire direttamente nel mondo – una scienza letteralmente in grado di salvare il mondo.
Margaret Mead vantava tra i suoi primari mentori un dirigente della Macy Foundation, Lawrence Frank. Fu quest’ultimo a definire il problema in un contesto che Mead e Bateson avrebbero ripreso per i decenni a venire: il mondo, dichiarò Frank, era “una società malata bisognosa di cure”. La grave crisi finanziaria del 1929 e le sue conseguenze avevano distrutto milioni di vite e mezzi di sussistenza, creando una massiccia ondata di disoccupazione, carestia, senzatetto e disperazione. Per Mead si trattava di una crisi della cultura, non solo del capitalismo. Era convinta che la scienza potesse offrire un percorso – l’unico – capace di preservare la diversità culturale in un mondo minacciato dalla terrificante uniformità del totalitarismo, dalle richieste rapaci di imperi ancora potenti e dalla potenziale devastazione di una Seconda guerra mondiale.
Seguendo il consiglio di Lawrence Frank, Mead e Bateson consideravano la loro scienza non soltanto come uno strumento di diagnosi, bensì una cura in quanto tale. Immaginavano la creazione di una nuova cultura globale costruita su un’estesa diversità piuttosto che sull’uniformità. Mead parlava di una “evoluzione culturale” che avrebbe spinto l’umanità oltre le obsolete limitazioni della razza, della nazione e del genere – e persino degli stati di coscienza. Mead e Bateson si consideravano alle prese con un momento unico di crisi globale, un periodo storico che avrebbe per sempre “definito quei percorsi lungo i quali le generazioni future saranno in grado di procedere”.
La visione di un futuro che tuttavia deviò da simili previsioni.
Si tratta di una vicenda storica che richiama l’attuale periodo di rapido cambiamento culturale e di rinnovato interesse per la ricerca psichedelica. Ma anche sorprendentemente sconosciuta, soprattutto, forse, per l’enorme ottimismo da cui era pervasa. Una volta a Carl Sagan venne chiesto perché mai dovremmo aspettarci che qualche extraterrestre possa inviare segnali nello spazio profondo. «Tutto ciò di cui hanno bisogno è qualcosa come Margaret Mead», rispose. Perché costei si considerava “un polo d’ascolto continuo”, capace di raccogliere e sintetizzare informazioni provenienti da qualsiasi ambito, come un computer centralizzato. Secondo la sua opinione, la scienza aveva “introdotto un diverso livello…di consapevolezza” nella storia dell’umanità. Aveva messo a nudo la diversità culturale e le pulsioni inconsce, ma soprattutto ci aveva consentito di riprogrammare le nostre menti e le nostre società. Margaret Mead era cresciuta nell’era di Freud, quando si riteneva che fosse l’inconscio a definire il comportamento umano. Ma era convinta che gli scienziati come lei fossero coinvolti nel processo di trasformazione rivoluzionaria della coscienza collettiva, rendendo visibili quelle pulsioni e motivazioni invisibili secondo modalità che avrebbero potuto porre fine ad antiche divisioni, guarire i traumi e attivare il potenziale umano. Eravamo delle macchine in procinto di acquisire consapevolezza.
Noi chi, però? Chi si trovò tagliato fuori da questa visione e chi invece riuscì a sfruttarla?
La storia degli psichedelici nel XX secolo è stata quasi sempre raccontata come dominata da uomini bianchi americani, da nomi quali Timothy Leary e Richard Alpert (Ram Dass). Figure che certamente compaiono nelle pagine di questo libro, dove ho però cercato di inserirle in un contesto più ampio. (Il DMT, per fare un esempio, fu oggetto di attente indagini da parte di etnobotanici brasiliani e psichiatri cechi prima di trovare spazio nella controcultura statunitense).
Come antropologi, Mead e Bateson esemplificarono questa prospettiva globale. Mead trascorse la maggior parte del 1953 – un anno cruciale per gli psichedelici – su un’isoletta al largo della costa della Nuova Guinea, impegnata a studiare lo sviluppo di una religione apocalittica che definì “Il Rumore”. Una volta tornata a New York nel 1954 e coinvolta nella ricerca sull’LSD, la sua prospettiva venne plasmata da quest’esperienza tanto quanto dalle problematiche interne degli americani negli anni Cinquanta.
L’importanza di Margaret Mead in questo quadro – e un accenno al lato oscuro del mondo che contribuì a mettere insieme – emerge da due fotografie relative al convegno organizzato nel 1954 dalla Macy Foundation sugli stati alterati di coscienza. Entrambe ritraggono la stessa scena ma con una curiosa differenza. La prima è un normale ritratto di gruppo, che mostra i vari partecipanti all’evento. Gli occhi aperti, tutti ben attenti. La seconda fotografia, non diffusa in pubblico e distribuita privatamente ai soli presenti, mostra lo stesso gruppo con gli occhi chiusi, mimando uno stato di trance. Al centro di entrambe siede Margaret Mead. Intorno a lei ecco la crema della scienza psichedelica di allora: alla sua destra troviamo Roy Grinker, uno degli inventori della narcosintesi, un trattamento farmacologico sperimentale per i traumi. In basso a sinistra, calvo e con un affabile sorriso, siede Harold Abramson, l’uomo al centro del programma di sperimentazione con le droghe, tuttora avvolto nel mistero, organizzato in quegli anni dalla CIA.
La foto, in altre parole, testimonia non solo la centralità di Mead, ma anche i suoi segreti. Delle diciotto persone ivi ritratte in un giorno di primavera del 1954, oltre la metà svolgeva ricerche sugli psichedelici, gran parte delle quali in assoluta segretezza. Una di loro, la neuroscienziata Mary Brazier, una volta spiegò: «Quello che noi, come gruppo, abbiamo ricavato da quei convegni non emerge, credo, per un lettore esterno. È tutto scritto tra le righe».
Probabilmente Bateson e Mead sarebbero stati sorpresi di ritrovarsi tra i protagonisti della storia degli psichedelici. Perché incentrare questa narrazione su di loro piuttosto che sugli esperti chimici e farmacologici che hanno scoperto quelle sostanze o sui pazienti che le hanno assunte? La storia raccontata “tra le righe” della scienza psichedelica – quel che viene rivelato nelle fotografie private, nelle voci criptiche dei diari, nei manoscritti dimenticati, nelle lettere scarabocchiate e nei promemoria riservati – è una storia che in misura sorprendente vede come proprio baricentro Mead, Bateson e la loro cerchia. L’archivio di Mead comprende innumerevoli riferimenti al suo decennale interesse per il peyote. E poi c’è il documento del 1954 intitolato “Promemoria preliminare sull’LSD”, che ne descrive la partecipazione a uno dei primi esperimenti tenutisi in Usa con la dietilammide dell’acido lisergico. Nel frattempo, Gregory Bateson fu direttamente responsabile del primo viaggio di Allen Ginsberg con l’LSD e svolse un ruolo chiave nella nascita della psichiatria psichedelica nella Silicon Valley degli anni Cinquanta.
Parimenti importante al loro ruolo diretto ne è stato l’impatto intellettuale sui ricercatori e sugli scrittori nel campo della psichedelia. Aldous Huxley lesse attentamente gli scritti di Mead mentre lavorava a Le porte della percezione in seguito ai suoi esperimenti con la mescalina negli anni Cinquanta. Il primo testo pubblicato da Timothy Leary nelle vesti di ricercatore, come ha ricordato un suo collaboratore, venne ispirato direttamente da Bateson. E in uno dei suoi primi discorsi sugli psichedelici, lo stesso Leary citò Mead, mentre dietro le quinte cercava di convincerla a prendere la psilocibina insieme a lui.
Oggi, di fronte a una nuova crisi globale e alla minaccia di un’altra Guerra Fredda, quegli stessi composti chimici sono riemersi in primo piano. Per molti versi, sembra di tornare al punto di partenza con queste sostanze misteriose, affascinanti e profondamente incomprese.
C’è davvero tanto da imparare – e da ricordare.
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